Quando il figlio deve contribuire al mantenimento dei genitori? Partiamo subito da un presupposto: l’articolo 433 del Codice Civile stabilisce un ordine tra i familiari tenuti a prestare un sostegno economico minimo a chi si trovi in difficoltà. In questo caso i figli sono tra i primi soggetti obbligati verso i genitori, tuttavia l’obbligo sorge solo se esistono determinate condizioni: stato di bisogno del genitore; incapacità del genitore di provvedere da solo; il figlio deve avere le capacità economiche per poter contribuire, tenuto conto delle sue esigenze di vita e del suo nucleo familiare. Se ci fossero più figli, l’obbligo sarebbe ripartito tra loro in base alle rispettive capacità economiche. Se il ricovero in RSA è necessario e la pensione del genitore non è sufficiente a coprire la retta, allora l’obbligo alimentare si estende anche a contribuire al pagamento di tale retta, sempre nei limiti delle proprie capacità economiche.
Tutto ciò è finalizzato a garantire i mezzi di sussistenza essenziali, quindi non a mantenere lo stesso tenore di vita precedente del genitore, bensì a coprire i bisogni primari (vitto, alloggio, pagamento affitto e utenze, oppure la quota alberghiera della RSA, vestiario, cure mediche e farmaci). L’importo non è fisso, ma viene determinato caso per caso dal giudice (sempre però se non ci sia un accordo) tenendo conto, in proporzione, dello stato di bisogno di chi li riceve e delle condizioni economiche di chi li deve prestare.
Ancora, se si contribuisce al mantenimento o si paga la retta della RSA per genitori, si può chiedere la restituzione di queste somme in futuro? La risposta è no. Le somme versate dal figlio in adempimento dell’obbligo legale di prestare gli alimenti (secondo l’art. 433 del Codice Civile), così come anche quelle versate per spirito di solidarietà familiare, non sono rimborsabili.
Con la morte del genitore, l’obbligo del figlio di versare gli alimenti cessa naturalmente (art. 448 del Codice Civile). Se il figlio decide di accettare l’eredità, invece, subentra nella posizione giuridica del de cuius, sia per i crediti che per i debiti da questi lasciati (i cosiddetti “debiti ereditari”). La responsabilità, secondo l’articolo 752 del Codice Civile, è proporzionale alla quota ereditaria. Esistono diverse modalità di accettazione con conseguenze molto diverse sulla responsabilità per i debiti. Le due più note sono l’accettazione pura e semplice (può essere espressa con un atto formale) e quella tacita (compiendo atti che presuppongono la qualità di erede, come ad esempio vendere un bene ereditario). In questo ultimo caso, il proprio patrimonio personale si fonde con quello ereditato, diventando responsabile per tutti i debiti ereditari, anche se il loro ammontare supera il valore dei beni ricevuti in eredità. C’è inoltre anche l’accettazione con beneficio d’inventario, ovvero una procedura formale che permette di tenere separati il patrimonio personale da quello ereditato. Infine c’è la rinuncia all’eredità.: in questo caso non si acquisisce la qualità di erede, non si riceve alcun bene dall’eredità e non si risponde dei debiti.