Gaza prova a ripartire, a rialzarsi lentamente. Dopo la firma dell’accordo di cessate il fuoco tra Israele e Hamas, la Striscia vive una calma fragile, interrotta a tratti da nuovi bombardamenti e tensioni lungo i valichi. Le rovine di interi quartieri si estendono per chilometri, i campi profughi restano affollati e la rete elettrica funziona a intermittenza, poche ore al giorno. La guerra non è più quella di un tempo, ma la pace, quella vera, fatta di sicurezza e ricostruzione, è ancora lontana.
Le agenzie umanitarie stimano che più del 70% delle abitazioni sia distrutto o gravemente danneggiato. Ospedali, scuole, reti idriche ed elettriche sono da ricostruire quasi da zero. I convogli internazionali cominciano a entrare attraverso i valichi, portando medicinali, cibo e materiali da costruzione, ma la macchina degli aiuti fatica a muoversi con la rapidità necessaria. “Ogni giorno senza elettricità significa un giorno in più senza acqua, senza comunicazioni, senza cure mediche adeguate”: spiega un operatore dell’ONU sul campo.
Nein Rayynar ha ventidue anni e vive in una tenda improvvisata con la madre e due sorelle, in quella che un tempo era la periferia di Gaza City. “Sogno l’Italia – racconta guardando verso il mare – Un paese dove la notte non significhi paura, dove si possa studiare, costruire qualcosa. Non voglio partire per fuggire: voglio partire per tornare diversa, per avere un futuro.» Il suo sguardo si accende quando parla di musica e di libri, ma si spegne di fronte al pensiero del fratello minore, scomparso sotto le macerie. «Lui voleva fare l’infermiere. Io voglio che almeno il suo sogno non muoia qui“. Le parole di Nein sono quelle di un’intera generazione che oggi sogna di vivere, non solo di sopravvivere.
A raccontare cosa resta della guerra è anche chi l’ha osservata da vicino. Il giornalista italiano Fabio Tonacci, tornato a Gaza dopo mesi di chiusura, ha raccolto testimonianze che parlano di abusi, torture e paura. “Ho visto uomini con i segni delle corde ai polsi, donne che non parlano più, bambini che tremano al rumore del vento – scrive nel suo reportage – La guerra non finisce quando tacciono le armi: continua nei corpi e nella mente di chi resta“.
Le sue parole riportano al centro il tema dei diritti umani e delle responsabilità ancora irrisolte; mentre le organizzazioni internazionali discutono piani di ricostruzione e corridoi umanitari, la popolazione locale resta intrappolata in un limbo, tra le bombe israeliane e le violenza di bande criminali locali in guerra con Hamas. Le scuole aprono a singhiozzo, gli ospedali operano senza strumenti, la disoccupazione supera l’80 per cento. La tregua ha fermato le armi, ma non ha cancellato le ferite.
La pace, per ora, è un documento firmato su carta: sul terreno, è una promessa ancora fragile. Eppure, nei gesti più semplici, come quello di un mercato che riapre, un bambino che gioca tra le rovine, una linea elettrica che torna a funzionare, si intravedono i primi segni di vita. Gaza continua a resistere, a cercare di andare avanti in qualche modo, perché la pace vera non si misura nei trattati, ma nella capacità di un popolo di ricominciare a vivere.