Vladimir Putin: il leader che nasce dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica

Il 7 maggio 2000 è una data fondamentale per la storia di Putin

di Domenico Colella

La dissoluzione dell’Unione Sovietica, avvenuta nel 1991, fu accolta in buona parte del mondo come la fine di un’era di oppressione e la promessa di un futuro più democratico e aperto per i popoli dell’ex blocco sovietico. Tuttavia, per la Russia e le repubbliche ex sovietiche, questo passaggio epocale fu tutt’altro che lineare. A seguito dello sgretolarsi del sistema sovietico, emersero forti tensioni politiche, economiche ed etniche, che misero a dura prova la giovane Federazione Russa guidata da Boris Eltsin. In questo scenario di caos e incertezza, si profilò lentamente la figura di un nuovo protagonista destinato a dominare la scena russa per oltre due decenni a partire dal 7 maggio del 2000: Vladimir Putin.

Alla guida della Russia post-sovietica, Boris Eltsin cercò fin da subito di accreditare la nuova Federazione come legittima erede dell’URSS, ottenendo anche il sostegno degli Stati Uniti e della comunità internazionale. Nel 1993, Eltsin firmò con il presidente americano Bush un importante trattato per la riduzione degli armamenti nucleari, rafforzando la posizione della Russia come potenza nucleare responsabile. Ma dietro questi gesti simbolici, il paese era lacerato da contraddizioni profonde. La Comunità degli Stati Indipendenti, nata per garantire una continuità post-sovietica tra le repubbliche ex URSS, si rivelò inefficace e incapace di gestire i numerosi conflitti regionali. Sul piano interno, la Russia dovette affrontare un’epidemia di separatismi, una crisi economica senza precedenti e una transizione verso il capitalismo traumatica e disorganizzata.

Le riforme economiche spinte da Eltsin, spesso sostenute dai governi occidentali, puntavano a una rapida privatizzazione e liberalizzazione del mercato. Tuttavia, la mancanza di un ceto imprenditoriale solido e di un’efficace amministrazione fiscale fece sì che i benefici della nuova economia andassero solo a pochi oligarchi, mentre la maggior parte della popolazione sprofondava nella povertà. Tra il 1993 e il 1999, Eltsin affrontò gravi crisi politiche, tra cui uno scontro frontale con il Parlamento culminato nell’assedio del municipio e della sede della televisione a Mosca, e un sanguinoso conflitto con i deputati ribelli. La risposta di Eltsin fu quella di rafforzare il potere presidenziale attraverso una nuova costituzione, ma questo non bastò a stabilizzare il paese.

Nel 1994, Eltsin ordinò l’intervento militare in Cecenia per contrastare le tendenze separatiste. La guerra, che doveva essere breve, si trasformò in un conflitto lungo e logorante, con un impatto devastante sull’immagine dell’esercito e sul morale della nazione. L’apparato statale appariva sempre più disorganizzato, mentre la società civile si sfaldava. Nel 1998, la crisi economica raggiunse l’apice con il crollo del rublo, facendo precipitare la popolarità del presidente, sempre più malato e isolato politicamente.

In questo contesto di crisi e incertezza, Eltsin compì una mossa sorprendente: nell’agosto del 1999, nominò primo ministro un ex dirigente del KGB semi-sconosciuto al grande pubblico, Vladimir Putin. La nomina fu accolta con scetticismo, ma Putin si rivelò presto un leader deciso e risoluto. Il suo atteggiamento energico nei confronti della rinascente insurrezione in Cecenia, il suo stile pragmatico e la capacità di trasmettere ordine e stabilità gli valsero l’appoggio dell’opinione pubblica.

Eltsin, ormai stremato, si dimise a sorpresa il 31 dicembre 1999, affidando a Putin la guida ad interim del paese. La sua candidatura alle elezioni presidenziali di marzo fu quindi naturale, e con una campagna che enfatizzava la restaurazione dell’orgoglio e della stabilità nazionale, Putin ottenne una vittoria netta: era il 7 maggio del 2000.

Putin si presentò come l’uomo della rinascita russa. Fin dall’inizio, lavorò per ridare efficienza allo Stato e rilanciare l’economia, che nel 2000 iniziò a mostrare segnali di ripresa grazie all’aumento dei prezzi del petrolio. L’industria energetica, sotto il controllo statale o di oligarchi vicini al Cremlino, divenne la principale leva del rinnovato prestigio economico della Russia. Sul piano interno, Putin introdusse misure per rafforzare il potere centrale, limitando il ruolo delle regioni autonome e imponendo un controllo sempre più stretto sui media e sull’opposizione politica. In nome della lotta al terrorismo e dell’unità nazionale, la repressione delle voci dissenzienti aumentò, così come le accuse di violazioni dei diritti umani, in particolare in Cecenia, dove le operazioni militari continuarono con una durezza crescente.

Parallelamente, Putin avviò un ambizioso progetto di rilancio della politica estera russa. Cercò inizialmente un riavvicinamento con l’Occidente, culminato nel 2002 con la firma, al vertice di Pratica di Mare, di un accordo con la NATO per la cooperazione contro il terrorismo. Ma ben presto riaffiorarono le tensioni, soprattutto a causa dell’allargamento della NATO a est e del supporto occidentale a governi filo-occidentali in Ucraina e Georgia. Il rifiuto di Putin di accettare qualsiasi forma di ingerenza esterna e la riaffermazione degli interessi nazionali russi divennero tratti distintivi della sua linea politica. L’invasione della Cecenia fu accompagnata da episodi tragici come la strage del teatro Dubrovka a Mosca (2002) e l’attacco alla scuola di Beslan (2004), che cementarono nella popolazione il bisogno di un leader forte e deciso.

L’ascesa di Vladimir Putin alla presidenza russa non fu un semplice cambio di leadership, ma il risultato di una crisi sistemica che aveva portato al collasso dello Stato e all’erosione della fiducia popolare nella democrazia liberale. Putin, con la sua immagine di uomo forte, seppe incarnare la risposta autoritaria a un’epoca di caos. Negli anni successivi avrebbe progressivamente consolidato il suo potere, portando la Russia verso un nuovo modello politico: un’autoritaria stabilità sostenuta dal consenso popolare, dal controllo dei media e da un rinnovato nazionalismo. Una trasformazione le cui radici affondano profondamente nelle difficoltà del decennio post-sovietico.

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