“Volevo Nascondermi”: l’emozionante biopic di Ligabue che ha trionfato ai David

di Vittorio Paolino Pasciari

Volevo nascondermi è un film di genere biopic-drammatico del 2020 diretto da Giorgio Diritti che racconta, in maniera romanzata, la vita del pittore e scultore italiano Antonio Ligabue. La pellicola ha per interpreti principali Elio Germano (Antonio Ligabue), Pietro Traldi (Renato Mazzacurati), Oliver Ewy (Ligabue da giovane), Leonardo Carrozzo (Ligabue da bambino), Orietta Notari (madre di Mazzacurati), Fabrizio Careddu (Ivo), Andrea Gherpelli (Andrea Mozzali), Maurizio Pagliari (Sassi), Paola Lavini (Pina), Francesca Manfredini (Cesarina), Daniela Rossi (madre di Cesarina), Mario Perrotta (Raffaele Andreassi) e Gianni Fantoni (Antonini). Il film ha raggiunto la vetta del botteghino nel weekend del 6 marzo 2020 e fra i riconoscimenti sono da segnalare il premio “nastro dell’anno” ai Nastri d’argento 2020, l’Orso d’argento “miglior attore” ad Elio Germano al festival di Berlino 2020 e ben 7 David di Donatello 2021 fra cui “miglior film”, “miglior regista” a Giorgio Diritti e “miglior attore protagonista” ad Elio Germano.

TRAMA Gualtieri, 1919. Toni, figlio di una emigrante italiana, respinto in Italia dalla Svizzera dove ha trascorso un’infanzia e un’adolescenza difficili, vive per anni in una capanna sul fiume Po senza mai cedere alla solitudine, al freddo e alla fame. L’incontro con lo scultore Renato Marino Mazzacurati è l’occasione per riscoprire la predisposizione al disegno e avvicinarsi alla pittura. È questo l’inizio di un riscatto in cui sente che l’arte è l’unico tramite per costruire la sua identità, la vera possibilità di farsi conoscere ed amare dal mondo. Antonio Ligabue, denominato “El Matt” o “El Tudesc” dai contadini emiliani, un uomo affetto da rachitismo e gozzo, brutto e sovente deriso ed emarginato, diventa un pittore immaginifico, dalla critica riconosciuto come pittore naïf, che dipinge tigri, gorilla e giaguari stando sulla sponda del Po.

 

ANALISI  Un contesto rurale crudo e quasi selvaggio fa da sfondo alla tormentata esistenza del protagonista. L’azione scorre veloce scandita da flashback che rendono quasi superflua la cronologia perché l’attenzione è rivolta principalmente alle emozioni e soprattutto ai tormenti interiori da cui scaturisce il genio artistico in contrasto con una “normalità” che fa fatica ad accettare ciò che agli occhi appare eccentrico. I dialoghi in dialetto schietto servono solo ad accentuare il difficile rapporto con i propri simili e la disperata ricerca di identità e di amore al di là del riconoscimento dell’indiscusso genio espresso con pennello e creta. Il riscatto ottenuto attraverso l’arte mitiga poco la malinconia che accompagna la fine della vita e della storia che con immagini suggestive ed un’interpretazione perfetta offre un altro emozionante omaggio all’arte come espressione di chi fa di tutto per essere accettato quando la cosiddetta “normalità” gli viene preclusa da tristi circostanze.

Henri Rousseau, Il pranzo del leone, 1907 (New York, Metropolitan Museum)

GENIO INGENUO Nel 1886 il pittore francese Henri Julien Félix Rousseau (1844-1910), meglio noto come “Rousseau il Doganiere”, espose le sue opere al Salon des Indépendants suscitando interesse ed ammirazione da parte dei letterati Alfred Jarry e Guillame Apollinaire e, anni più tardi, del giovane Pablo Picasso. Sul finire del XIX secolo, e sopratutto dai primi decenni del Novecento, si diffuse il concetto di arte naïf (dal termine francese naïf ossia “ingenuo”) che conobbe un notevole sviluppo e una certa popolarità a livello europeo e internazionale. Questo tipo di produzione artistica si caratterizza per essere priva di legami con la realtà culturale e accademica della società in cui è prodotta. L’artista è di solito autodidatta, privo di specifica formazione artistica, di livello culturale ed estrazione sociale modesti. Almeno agli inizi raramente si può parlare di professionisti di questo tipo di arte. Le opere, dipinti per la maggior parte, si caratterizzano per una notevole semplificazione concettuale e una certa modestia tecnica ed esecutiva nel disegno, nella stesura del colore e nell’impianto prospettico e compositivo di insieme.

Tema predominante è la rappresentazione della realtà sociale più umile e quotidiana, generalmente in chiave favolistica, poetica o magica. Nell’arte naïf si può comunque riconoscere una certa consapevolezza delle sue caratteristiche, distinguendosi in ciò dalla cosiddetta arte primitiva, e si possono notare serietà e rigore sufficienti a porla su un altro piano rispetto all’arte dilettantistica. Fra i rappresentanti più celebri di questo nuovo tipo di arte si possono ricordare, oltre ai francesi Rousseau, Séraphine de Senlis e Louis Vivin, il croato Ivan Generalič (che diffuse la tecnica della pittura su vetro) e gli italiani Orneore Metelli, Ezechiele Leandro, Dino Pasotti e ovviamente Antonio Ligabue.

Palazzo Cheval

Seppur predominando nella pittura, anche nella scultura si diffuse lo spirito naïf in opere notevoli fra cui spiccano le composizioni del minatore tedesco Erich Bödeker e fra le opere architettoniche si ricorda ancora la Francia con il Palais Cheval, costruito in più di trent’anni da Ferdinand Cheval, di professione postino. Inevitabilmente e con una certa ironia, l’avvento del professionismo e il mercato dell’arte e delle gallerie finirono con il pregiudicare le caratteristiche che furono alla base dell’arte naïf, ovvero spontaneità e ingenuità.

DOLORE, ARTE, RICERCA D’AMORE  La vita del pittore e scultore Antonio Ligabue (Zurigo 1899 – Gualtieri 1965) risulta travagliata fin dall’infanzia. Registrato all’anagrafe con il cognome della madre nubile, Maria Elisabetta Costa, in seguito al matrimonio di questa con Bonfiglio Laccabue venne da questi riconosciuto nel 1901 ottenendo il cognome del patrigno. Divenuto adulto, Antonio preferisce essere chiamato Ligabue forse per odio nei confronti di Bonfiglio, da lui ritenuto responsabile della morte della madre, morta tragicamente nel 1913 insieme a tre fratelli per un’intossicazione alimentare. Fin da bambino non visse mai con la sua vera famiglia, e quando nel 1900 viene affidato a Johannes Valentin Göbel ed Elise Hanselmann, una coppia di svizzeri tedeschi senza figli, egli li considerò sempre i propri genitori, pur avendo con loro un rapporto travagliato. Ai disagi dovuti ai continui spostamenti per le disagiate condizioni economiche e culturali della famiglia adottiva, ad aggravare un’infanzia difficile per il futuro artista si aggiungono le malattie da cui era affetto (rachitismo e gozzo) che ne mineranno per tutta la vita lo sviluppo fisico, mentale e psichico. Ripetuti sono i cambiamenti di scuola dovuti al suo difficile carattere fino all’ultima espulsione per cattiva condotta, nel 1915, da un istituto a Marbach. Da qui comunque Ligabue impara a leggere con una certa velocità e soprattutto trova sollievo nel disegno.

Il periodo 1917-1928 è caratterizzato da una vita errabonda. Ligabue lavora saltuariamente come bracciante agricolo, alterna la difficile convivenza con i genitori adottivi con peregrinazioni senza meta durante le quali lavora come contadino o accudisce animali nelle fattorie. Nel 1919, dopo aver aggredito la madre adottiva durante una lite, viene da questa denunciato ed espulso dalla Svizzera. Giunto in agosto a Gualtieri, luogo d’origine di Bonfiglio Laccabue, dopo un fallito tentativo di rientro in Svizzera, visse grazie all’aiuto dell’Ospizio di mendicità Carri.

La vita da nomade con lavoretti saltuari da manovale o bracciante prosegue presso le rive del Po, ma è proprio in questo periodo che inizia a dipingere. L’espressione artistica dà sollievo alle sue ansie, mitiga le sue ossessioni e riempie la sua solitudine da emarginato. Il 1928 è l’anno della svolta grazie all’incontro casuale con il pittore e scultore Renato Marino Mazzacurati. Da questo momento Ligabue decide di dedicarsi completamente all’arte. Fra il 1937 ed il 1948 si segnalano periodici ricoveri presso l’ospedale psichiatrico San Lazzaro di Reggio Emilia, a causa dei suoi stati maniaco-depressivi, che sfociavano talvolta in attacchi violenti autolesionistici o contro gli altri. Fu lo scultore Andrea Mozzali ad ospitarlo a casa sua a Guastalla una volta dimesso dall’ospedale. Durante la Seconda Guerra Mondiale il pittore fece da interprete alle truppe tedesche e a guerra finita soggiornò alternativamente presso il ricovero di mendicità Carri di Gualtieri o in casa di amici. Sul finire degli anni ’40 cresce l’interesse della critica nei confronti delle sue opere e nel 1957 Severo Boschi, firma del quotidiano bolognese Il Resto del Carlino, fa visita al pittore assieme al fotocronista Aldo Ferrari a Gualtieri (servizio con immagini tutt’ora celebri).

Gli anni ’50 rappresentano il periodo più prolifico per Ligabue che inizia a essere conosciuto in mostre collettive e anche personali (la prima sua mostra personale a Gonzaga nel 1955). La consacrazione nazionale avviene con l’esposizione alla Galleria La Barcaccia di Roma nel 1961.

“Il rimpianto del suo spirito, che tanto seppe creare attraverso la solitudine e il dolore, è rimasto in quelli che compresero come sino all’ultimo giorno della sua vita egli desiderasse soltanto libertà e amore.”

La travagliata esistenza e la riconosciuta carriera di pittore vengono interrotte il 18 novembre 1962 con un’emiparesi che colpisce Ligabue portandolo ad una serie di ricoveri in diversi ospedali prima di tornare presso il ricovero Carri di Gualtieri, dove l’artista si spegne il 27 maggio 1965. Antonio Ligabue è sepolto nel cimitero di Gualtieri e sulla sua lapide è posta la maschera funebre in bronzo realizzata da Andrea Mozzali.

PITTURA E SCULTURA Nei suoi dipinti Ligabue traduce le sensazioni e i sentimenti che non riusciva ad esprimere con le parole. Non aveva bisogno di modelli e dipingeva attingendo le immagini dalla propria non comune memoria visiva. Tutto quello che cadeva sotto i suoi occhi viene registrato, rielaborato e riutilizzato all’occorrenza per creare scene dal forte potere evocativo. Ricordi d’infanzia, paesaggi, episodi quotidiani, film, cartoline, libri, queste sono le fonti di ispirazione cui si accosta una conoscenza più colta, acquistata da stampe o pubblicazioni d’arte (Van Gogh, Klimt, i fauves e gli espressionisti tedeschi). Tra i vari soggetti l’artista predilige animali, domestici e esotici, ritratti in situazioni di quiete o tensione (agguati, aggressioni, lotte). Non mancano però anche riproduzioni di scene di vita quotidiana (campi e aratura), paesaggi svizzeri e la caccia.

Nella prima fase della sua produzione (anni ’20 – ’30) Ligabue adotta un impianto piuttosto semplice: colori molto diluiti e spenti, contorni sfumati e i soggetti sono sempre animali in posa statica e di profilo. In seguito (anni ’40) l’artista inizia a lavorare con gli autoritratti, raffigurando sé stesso principalmente in posa frontale, con il volto girato a sinistra e lo sguardo rivolto a destra, quasi sempre a mezzo busto, con particolare cura data all’abbigliamento e all’espressività degli occhi. Il colore  assume connotazioni espressionistiche e la pennellata si fa più corposa, alla staticità si sostituisce il movimento e l’attenzione si concentra sulla definizione dell’immagine in primo piano su uno sfondo reso con macchie di colore. Nel suo periodo più prolifico (anni ’50) Ligabue usa colori ancora accesi, violenti, espressionistici e la linea scura di contorno delle figure in primo piano acquisisce maggiore evidenza, mentre più frequenti sono gli autoritratti a figura intera.

Anche come scultore Ligabue predilige come soggetti gli animali, rappresentati dapprima statici e poi resi sempre più in movimento e con dovizia di particolari. E se Ligabue non datava i suoi quadri rendendone difficile ai posteri la catalogazione, per le sculture la storia non è meno triste a causa della tecnica adottata, la lavorazione su creta del Po, resa più malleabile da una lunga masticazione, che a differenza della cottura rende le sue opere deperibili provocando così la perdita di molte di esse.

“… ero un uomo emarginato, un bambino solo, un matto da manicomio, ma volevo essere amato.”

UN VINCITORE PIÙ CHE DEGNO  Così Alessandra De Luca descrive il film di Giorgio Diritti in un’intervista sul quotidiano Avvenire:

“Poetico cantore di un’Italia rurale che non esiste più, Giorgio Diritti traccia il personalissimo ritratto di un pittore tormentato e immaginifico che urla al mondo la sua voglia di esistere.”

Ed in effetti la regia si concentra sul contesto rurale, crudo e schietto, e sulle emozioni interiori più che sui dialoghi per offrire allo spettatore un vero – mai termine più appropriato – ritratto che impressiona alla vista scuotendo gli animi di chi ha un cuore non ancora inaridito da una normalità sociale e cittadina che puzza troppo di prigione e risulta incapace di comprendere e capace solo di sfruttare ed emarginare chi, per suo volere o perché segnato fin dalla nascita, non riesce ad adattarsi.

Elio Germano già aveva dato modo di dimostrare il suo indiscusso talento in un memorabile omaggio al poeta di Recanati diretto da un sempre bravissimo Mario Martone (2016, Il giovane favoloso). Come con il suo Leopardi anche con il suo Antonio Ligabue l’interpretazione pone l’attenzione sul lato umano del protagonista, e si dimostra più che degno del suo quarto David di Donatello.

Un animo segnato e tormentato da tragiche circostanze ha bisogno – come tutti e non solo “normali” – di essere accettato ed amato (cfr. Van Gogh). Spesso proprio quello che sfugge alla superficiale catalogazione sociale, assuefatta da convenzioni e compromessi che non sempre sono buoni, nasconde un talento che lo rende speciale perché capace di trasmettere emozioni uniche con il cuore ancora capace di amare la Natura da immortalare attraverso la magia dell’arte e della poesia.

IMPRESSIONANTE E COMMOVENTE.

 

FILM DA VEDERE.

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