“Il delitto perfetto”: Teatro e Cinema si fondono nel genio di Hitchcock

di Vittorio Paolino Pasciari

Il delitto perfetto (Dial M for Murder) è un film di genere giallo-thriller del 1954 diretto da Alfred Hitchcock. La pellicola ha per interpreti principali Ray Milland (Tony Wendice), Grace Kelly (Margot Mary Wendice), Robert Cummings (Mark Halliday), Anthony Dawson (Charles Alexander Swann), John Williams (ispettore capo Hubbard), Leo Britt (narratore al ricevimento), Patrick Allen (detective Pearson) e Robin Hughes (sergente di polizia). Il film segna l’inizio della collaborazione artistica fra l’attrice Grace Kelly e il regista maestro del brivido, che in quest’occasione sperimenta la tridimensionalità stereoscopica nello spazio chiuso fondendo brillantemente teatro e cinema. Girato con un budget ridotto in appena 36 giorni, il film è risultato un grande successo di pubblico e di critica, il maggior successo del regista con la Warner, e fra i riconoscimenti si segnala la nomination miglior attrice straniera per Grace Kelly ai Premi BAFTA 1955. Un remake del 1998 è diretto da Andrew Davis con Michael Douglas, Gwyneth Paltrow e Viggo Mortensen nel ruolo dei protagonisti.

 

TRAMA  Tony Wendice, ex giocatore di tennis, è consapevole del fatto che la sua ricca moglie Mery lo tradisce con Mark Halliday, scrittore di romanzi gialli. E quando Mark torna a Londra Tony teme che la moglie gli chieda il divorzio lasciandolo sul lastrico, poiché egli l’ha sposata per interesse e non si è dato da fare per costruire un patrimonio personale. Tony decide quindi di ricattare il capitano Lesgate, suo ex compagno di università, per spingerlo ad uccidere Mary ed intascare l’eredità della moglie con un piano che sembra ben architettato. Qualcosa di imprevisto, la morte di Lesgate per mano involontaria di Mary, cambia le carte in tavola per l’avido Tony che, alla fine di una tesa ricerca della verità, viene smascherato dalla solerzia e dall’intuito dell’ispettore capo Hubbard.

ANALISI DEL FILM  L’apparente tranquillità di una coppia felice rivela subito allo spettatore la realtà di una relazione fedifraga che diventa la miccia ad accendere l’intrigo che va in crescendo. Una raffinata naturalezza di interpretazione ed una regia capace di tenere sulla corda lo spettatore sono i punti di forza di un vero genio della macchina da presa che pone l’attenzione sul torbido intento omicida del marito avido nullafacente. L’intreccio va avanti sorretto da primi piani che ben delineano i caratteri, resi ancora più suggestivi dall’effetto tridimensionale stereoscopico, mentre una abile gioco di imprevisti e attese  ravviva l’azione rapida. E quando tutto sembra favorire, nonostante l’esito imprevedibile, il piano omicida, un inaspettato colpo d’occhio del poliziotto ligio al dovere è l’ultimo imprevisto che scioglie l’intrigo brillantemente costruito e conclusosi in un appagante lieto fine.

 

TEATRO, CELLULOIDE E STEREOSCOPIO  L’idea del film venne ad Alfred Hitchcock (1899-1980) da un dramma omonimo di Frederick Knott rappresentato a Londra nel giugno del 1952. Per contrastare la nascente popolarità della televisione, il regista londinese optò per il formato stereoscopico nella versione originaria del film, pur non essendo un sostenitore di tale tecnica, popolare fino alla metà degli anni ’50 del XX secolo, ma esauritosi subito dopo. Hitchcock si limitò a sottolineare il rilievo con inquadrature dal basso e aveva appositamente fatto costruire una buca in modo che la cinepresa fosse al livello del pavimento.  Il rispetto per contesto teatrale viene mantenuto non solo a livello tecnico ma anche tematico negli elementi della farsa e della finzione. Da un lato il marito studia (come un regista!) tempi e luoghi del delitto progettato, dall’altro l’ispettore smonta la sua costruzione e scioglie l’intreccio restituendo la verità.

UN ESPERIMENTO RIUSCITO  Anche se non nutrisse particolari aspettative, Hitchcock, che anche qui si concede un cameo nel film (compare in primo piano a sinistra nella foto di gruppo del college di Wendice), raggiunse con questo film un risultato eccellente. In particolare i critici lodarono la capacità di Hitchcock di sfruttare cinematograficamente l’origine teatrale del testo valorizzandone, attraverso la rappresentazione all’interno della casa (solo due o tre volte la scena si sposta in esterni), la concentrazione che in uno spazio ristretto rispetta rigorosamente l’unità di luogo e di azione. Ed ancora più apprezzata dalla critica è l’atmosfera di grande e costante tensione che coinvolge emotivamente lo spettatore, in un gioco continuo di aspettative, di imprevisti, anticipi e sospensioni.

 

Considerando che le riprese durarono poco (7 giorni per la sola scena del delitto!) a causa del budget ridotto, che questa fu la prima e l’ultima volta che il regista britannico utilizzò il tridimensionale in spazio ridotto, e che il contemporaneo ma  successivo La finestra sul cortile avrebbe letteralmente eclissato questo esperimento teatro-cinema, non stupisce che lo stesso Hitch – in un celebre libro-intervista di François Truffaut – abbia liquidato il suo prodotto come “film minore, girato più che altro per esigenze contrattuali e commerciali”. Tutti i grandi geni hanno bisogno di esercizi per raggiungere la tanto agognata perfezione, che spesso per non dire sempre risulta invisibile a produttori e critici che non vanno oltre il profitto o la superficie.

E se tecnicamente chi è più esperto in materia può annoverare qualche lentezza nel prodotto, per gli appassionati della celluloide è un piacere godere di qualcosa di leggero, ma non meno intrigante, che accresce l’attesa per nuovi capolavori firmati da un vero Maestro che mai sarà dimenticato.

INTRIGANTE E PIACEVOLE.

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