Studiare, in Italia, conviene?

di Nello Cassese

Per ogni strumento c’è un fine. E’, nella logica, quello che dovrebbe succedere quando si organizza un sistema, di qualunque genere esso sia, che deve poi portare a un risultato. Con il sistema universitario italiano siamo però in una situazione un po’ ambigua. Funziona? E’ sostenibile? Analizzando i dati si possono fare diverse deduzioni quantitative ma analizzando le storie le considerazioni sono diverse.

Quanti giovani non riescono a finire gli studi? Quanti li finiscono con molti anni di ritardo? Quanti, purtroppo, cadono in depressione o, peggio, arrivano al suicidio? Gli episodi di cronaca degli ultimi mesi e degli ultimi anni restituiscono uno spaccato che nessun numero può analizzare. 

E’ probabilmente un problema culturale di una società, quella italiana, che ritiene la laurea sia sintomo di appetibilità intellettuale personale più che uno strumento per elevare sè stessi e contribuire a cambiare e far progredire la propria città, la propria famiglia, il proprio Paese. Cosa se ne fa l’Italia di migliaia di giovani che studiano e faticano sui libri senza la sicurezza di un posto di lavoro? Cosa se ne fa l’Italia di migliaia di neolaureati assunti con contratti a tempo determinato, stage o in nero?

La conoscenza è lo strumento di sviluppo di un popolo e questo dovrebbero capirlo i governanti di ogni Stato di diritto. Aprire corsi di laurea senza creare sbocchi lavorativi non porta ad alcuna forza lavoro. Di contro, si creano sacche di disoccupazione, famiglie sempre più appesantite di spese e giovani sempre più demotivati. Se ti va bene trovi lavoro subito e devi accettare di trasferirti, se ti va male resti ad arrancare alla ricerca di un lavoro che sia quantomeno giusto per i sacrifici che hai fatto.

E allora, come li gestisci tutti questi laureati e studenti se poi spesso non sai come utilizzarli? Bisognerebbe investire su nuovi posti di lavoro, evitando che gli studenti degli istituti tecnici o delle università finiscano i loro percorsi di studi senza alcuno sbocco. A Napoli, ad esempio, diversi laureati hanno deciso di partecipare ad un concorso per operatori della nettezza urbana perchè il posto fisso e la sicurezza economica davano loro una stabilità psicologica ed un equilibrio di vita che i loro settori lavorativi non riuscivano ad offrire. Un servizio amministrativo impeccabile, per un lavoro utile e dignitoso. Tutti sono stati felici ma probabilmente, sotto sotto, non pensavano a questo quando stavano ricevendo la pergamena di laurea.

Ma che Paese è, allora, un Paese che non ti dà occasione di rischiare, di sognare, di sviluppare e creare? E’ un Paese statico, che va piano mentre il mondo va veloce. 

Ogni volta che un giovane cade in depressione per gli esami, lo Stato ha fallito. Ogni volta che un giovane decide di togliersi la vita per essere in ritardo con gli esami, lo Stato ha fallito. Ogni volta che un neolaureato è costretto a lavorare gratis “per fare esperienza”, lo Stato ha fallito. Ogni volta che un neolaureato è costretto ad emigrare per lavorare, lo Stato ha fallito. Ogni volta che un neolaureato è costretto a lavorare 14 ore al giorno per uno stipendio a tempo determinato o a stage, lo Stato ha fallito.

E, ad oggi, se pensiamo che essere laureati e disoccupati non sia un problema, se oggi pensiamo che investire nel futuro di un Paese significhi aumentare i posti e i corsi di laurea invece che aumentare le opportunità di lavoro, se oggi pensiamo che le nostre qualità dipendano da un esame universitario, allora abbiamo fallito tutti.

Il sistema universitario italiano deve ritrovare uno scopo e una guida. Deve ritornare a poter contare su un sistema scolastico che non sia solo “obbligatorio” ma efficace ed efficiente. Studiare è la giusta via, ma conviene? La risposta è si, sempre, anche e soprattutto in Italia. Sta a chi ci governa non far rimpiangere questa scelta.

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