La storia poetica del “timkat” in Etiopia: tra colori, sete di integrazione e ventate di diffidenza

di Luca Marro

Nell’ultimo mese m’è successo di tutto. Sono andato in Costa d’Avorio per un matrimonio, ho visitato Algeri, un gruppo di 20 bambini mi voleva ammazzare per sfilarmi 10 euro di tasca, sono svenuto mentre facevo jiu jitsu e, dulcis in fundo, m’hanno fatto il telefono mentre festeggiavo timkat. Un momento, troppe cose una dietro l’altra, già sto per andare in confusione. Fatemi ripartire con calma: Che è il timkat?

Il timkat è una festa tradizionale super importante in Etiopia. É una specie di processione che assomiglia un po’ a quelle che si fanno in Italia. A dire il vero, la parte religiosa non è che l’ho capita benissimo. Ho visto per strada un sacco di foto di Gesù, della Madonna e di altri santi, ma non sono sicuro di cosa stessero celebrando. Forse l’Epifania, forse il battesimo di Cristo. Non lo so.

Quello di cui so sicuro è che tutta la città era in festa. Addis era come non l’avevo mai vista prima, piena di gente, bambini, odori, e colori nuovi. Tutto divertentissimo, a parte 2 cose. La prima, m’hanno rubato il telefono, la seconda è che tutti mi guardavano.

Quando giro per Addis di solito a nessuno gliene frega niente di me. Stavolta no. Camminavo in mezzo alla strada e mi sentivo gli occhi di tutti addosso. All’inizio non capivo il perché. Poi quando a un certo punto una persona m’ha chiesto di fare una foto assieme e tutto è diventato più chiaro. Mi sono ricordato: Ah, è perché sono bianco!

Questa cosa mi succedeva pure quando ero in Niger, e devo dire la verità non mi so ancora abituato a questo tipo di attenzioni. Non so mai che fare quando la gente mi guarda come un animale esotico. Cerco di fare la mia vita come se niente fosse, ma mi sento isolato. Incredibile, no?! Quando sono messo al centro dell’attenzione, così senza troppo senso, non faccio più parte del posto in cui mi trovo.

Sono sicuro che nessuno lo fa con quest’intenzione, ma mi sento come se la gente attorno a me non mi desse il diritto di vivere con loro. Come loro. Che è poi l’unica cosa che voglio. É la ragione per cui vivo qua. Proprio ieri ci pensavo a questo fatto, ma vuoi vedere che sta roba è tipo una forma di razzismo?  Salomè mi dice di si. Ma io non riesco a ripeterlo.

Mi hanno insegnato che il razzismo è un’altra cosa. Una cosa più violenta, più cattiva. Tipo le storie che Aguib mi ha raccontato. Aguib è il mio amico che si è sposato in Costa D’Avorio. Lui mi ha detto che quando stava in Francia si sentiva come se dovunque andasse tutti lo tenevano sott’occhio, non per curiosità come fanno con me, ma perché si aspettavano sempre il peggio da lui.

Ora, non ci vuole un genio per capire che tra Costa d’Avorio e Francia ci sia un legame super forte a livello culturale, politico ed economico, eppure l’integrazione di Aguib crea ancora reazioni spropositate nella gente. Ma come è possibile una cosa del genere? Esattamente la stessa domanda che mi so chiesto dopo timkat.

Anche Italia ed Etiopia sono legatissime da anni ormai. Se giri per Addis, vedi che i nomi dei quartieri so ancora italiani, il mercato è pieno di aziende italiane, in amarico ci stanno ancora oggi un sacco di espressioni di origine italiana. Eppure, tutta questa relazione storica, politica, economica non si è ancora trasformata in integrazione e conoscenza tra popoli. La base dei nostri rapporti resta sempre ad un livello metafisico, invisibile. Quasi come se non esistesse nella nostra vita normale.

Ancora oggi non siamo abituati a vederci, a parlarci, a tollerarci, a conoscerci. Ci facciamo strano l’un l’altro. Come se ci fosse un muro invisibile tra noi che non impedisce scambi commerciali o accordi politici, ma che ci blocca nei contatti che contano e ci fa sentire più lontani di quello che siamo. Sarebbe bello trovare una soluzione sostenibile a questa impasse in cui ci troviamo. Se mi concentrassi per un po’, ne sono certo, ci potrei pure arrivare. Purtroppo, però oggi è domenica e da poco è anche finito Sanremo. Tra l’altro l’ultimo di Amadeus. Quindi non è che posso fare tutto io, c’ho troppi pensieri per la testa. Facciamo che mi ci metto sopra un’altra volta, “mò non è cosa”.

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