Il Senato italiano ha votato martedì pomeriggio un provvedimento che consente alla associazioni antiabortiste di operare all’interno dei consultori familiari. La misura ha sollevato moltissime critiche per le modalità e per le tempistiche. Il permesso all’attività di gruppi di “supporto alla maternità” e alle donne alle prese con un’interruzione di gravidanza è stato inserito nel decreto sulle misure finanziate dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), che va convertito in legge entro il 1 maggio, e su cui la maggioranza ha posto la fiducia.
L’emendamento, a firma di Lorenzo Malagola di Fratelli d’Italia, è già passato alla Camera dei Deputati che ha approvato il testo sul PNRR il 16 aprile. Per gli attivisti a favore dell’aborto si tratta di un tentativo di attaccare la legge 194/1978 che ha depenalizzato l’aborto in Italia. Prima del 1978, l’interruzione volontaria di gravidanza (IVG), in qualsiasi sua forma, era considerata dal Codice Penale italiano un reato (art. 545 e segg. cod. pen., abrogati nel 1978). In particolare:
- causare l’aborto di una donna non consenziente (o consenziente, ma minore di quattordici anni) era punito con la reclusione da sette a dodici anni (art. 545);
- causare l’aborto di una donna consenziente era punito con la reclusione da due a cinque anni, comminati sia all’esecutore dell’aborto, sia alla donna stessa (art. 546);
- procurarsi l’aborto era invece punito con la reclusione da uno a quattro anni (art. 547);
- istigare all’aborto, o fornire i mezzi per procedere ad esso era punito con la reclusione da sei mesi a due anni (art. 548).
In caso di lesioni o morte della donna, inoltre, le pene erano inasprite (art. 549 e 550) ma, nel caso “… alcuno dei fatti preveduti dagli articoli 545, 546, 547, 548 549 e 550 è stato commesso per salvare l’onore proprio o quello di un prossimo congiunto, le pene ivi stabilite sono diminuite dalla metà ai due terzi.” (art. 551).
Il primo partito ad avanzare una proposta di legge per la regolamentazione dell’aborto fu il PSI nel 1973, con la proposta del deputato Loris Fortuna. Nel 1975 la regolamentazione dell’aborto riceveva l’attenzione dei mezzi di comunicazione, specie dopo l’arresto del segretario del Partito Radicale, Gianfranco Spadaccia, della segretaria del Centro d’Informazione sulla Sterilizzazione e sull’Aborto (CISA), Adele Faccio, e della militante radicale Emma Bonino per aver praticato aborti, dopo essersi autodenunciati alla polizia.
Nel 1975 iniziò la raccolta firme per il referendum avente ad oggetto la depenalizzazione del reato di aborto. Dopo aver raccolto oltre 700 000 firme, il 15 aprile 1976 con un Decreto del Presidente della Repubblica veniva fissato il giorno per la consultazione referendaria, ma il Presidente Leone il primo maggio fu costretto a ricorrere per la seconda volta allo scioglimento delle Camere.
Il bisogno di adeguare la normativa si è presentato al legislatore anche in seguito alla sentenza n.27 del 18 febbraio 1975 della Corte Costituzionale. Con questa sentenza la Consulta, pur ritenendo che la tutela del concepito ha tutela costituzionale, consentiva il ricorso alla IVG per motivi molto gravi. Il 9 giugno 1977 fu presentata alla Camera dei deputati la proposta unificata di legge ad oggetto “Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza”.
Il testo definitivo fu approvato dal Senato il 18 maggio 1978 divenendo noto come legge 22 maggio 1978, n 194. La sua approvazione soppresse le fattispecie di reato previste dal titolo X del libro II del Codice Penale tramite l’abrogazione degli articoli dal 545 al 555, oltre alle norme di cui alle lettere b) ed f) dell’articolo 103 del T.U. delle leggi sanitarie.
La 194 consente alla donna, nei casi previsti dalla legge, di ricorrere alla IVG in una struttura pubblica (ospedale o poliambulatorio convenzionato con la Regione di appartenenza), nei primi 90 giorni di gestazione; tra il quarto e quinto mese è possibile ricorrere alla IVG solo per motivi di natura terapeutica.
Il prologo della legge (art. 1), infatti, recita: “Lo Stato garantisce il diritto alla procreazione cosciente e responsabile, riconosce il valore sociale della maternità e tutela la vita umana dal suo inizio. L’interruzione volontaria della gravidanza, di cui alla presente legge, non è mezzo per il controllo delle nascite. Lo Stato, le regioni e gli enti locali, nell’ambito delle proprie funzioni e competenze, promuovono e sviluppano i servizi socio-sanitari, nonché altre iniziative necessarie per evitare che l’aborto sia usato ai fini della limitazione delle nascite”.
L’art. 2 tratta dei consultori e della loro funzione in relazione alla materia della legge, indicando il dovere che hanno nei confronti della donna in stato di gravidanza:
- informarla sui diritti a lei garantiti dalla legge e sui servizi di cui può usufruire;
- informarla sui diritti delle gestanti in materia laborale;
- suggerire agli enti locali soluzioni a maternità che creino problemi;
- contribuire a far superare le cause che possono portare all’interruzione della gravidanza.
Nei primi novanta giorni di gravidanza il ricorso alla IVG è permesso alla donna che accusi circostanze per le quali la prosecuzione della gravidanza, il parto o la maternità comporterebbero un serio pericolo per la sua salute fisica o psichica, in relazione o al suo stato di salute, o alle sue condizioni economiche, o sociali o familiari, o alle circostanze in cui è avvenuto il concepimento, o a previsioni di anomalie o malformazioni del concepito (art. 4).
L’art. 5 prevede che il padre del concepito non possa in alcun modo intromettersi nella IVG e non sia titolare di alcun diritto sul feto. La figura del padre è citata solamente quattro volte nel suddetto articolo e solamente chiamata in causa come presenza presso un consultorio, struttura sanitaria o medico di fiducia ai quali si rivolge la madre solo nel caso in cui questa vi acconsenta (comma 1 e 2).
La IVG è permessa dalla legge anche dopo i primi novanta giorni di gravidanza (art. 6): quando la gravidanza o il parto comportino un grave pericolo per la vita della donna; quando siano accertati processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna.
Le minori e le donne interdette devono ricevere l’autorizzazione del tutore o del giudice tutelare per poter effettuare la IVG. Tuttavia, al fine di tutelare situazioni particolarmente delicate, la legge 194 prevede che (art.12) nei primi novanta giorni, quando vi siano seri motivi che impediscano o sconsiglino la consultazione delle persone esercenti la potestà o la tutela, oppure queste, interpellate, rifiutino il loro assenso o esprimano pareri tra loro difformi, il consultorio o la struttura socio-sanitaria, o il medico di fiducia, espleta i compiti e le procedure di cui all’articolo 5 e rimette entro sette giorni dalla richiesta una relazione, corredata del proprio parere, al giudice tutelare del luogo in cui esso opera. Il giudice tutelare, entro cinque giorni, sentita la donna e tenuto conto della sua volontà, delle ragioni che adduce e della relazione trasmessagli, può autorizzare la donna, con atto non soggetto a reclamo, a decidere la interruzione della gravidanza.
La legge stabilisce che le generalità della donna rimangano anonime. La legge prevede inoltre che “il medico che esegue l’interruzione della gravidanza è tenuto a fornire alla donna le informazioni e le indicazioni sulla regolazione delle nascite” (art. 14).
Il ginecologo può esercitare l’obiezione di coscienza. Tuttavia, il personale sanitario non può sollevare obiezione di coscienza allorquando l’intervento sia “indispensabile per salvare la vita della donna in imminente pericolo” (art. 9, comma 5).
A quarant’anni dalla sua adozione, l’accesso all’interruzione volontaria di gravidanza resta ancora da garantire. Il professionista sanitario, anche se obiettore, non può invocare l’obiezione di coscienza qualora l’intervento sia indispensabile per salvare la vita della donna in imminente pericolo. Ad esempio, in caso di una donna che giunge presso il pronto soccorso ospedaliero con grave emorragia in atto, il medico, anche se obiettore, ha l’obbligo di portare a termine la procedura di aborto.
Il SSN deve assicurare che l’IVG si possa svolgere nelle varie strutture ospedaliere finalizzate a ciò. Secondo la Libera Associazione Italiana Ginecologi per l’Applicazione della legge 194 (LAIGA), nel 2017 solo il 59% degli ospedali italiani prevede il servizio di interruzione volontaria di gravidanza, in particolare per quanto riguarda i casi successivi al terzo mese. Il 41% degli ospedali italiani sarebbe pertanto non in conformità con quanto previsto dalla legge 194.