Cosa significa essere collaboratore di giustizia?

di Carolina Cassese

La scorsa settimana la Direzione nazionale antimafia (DNA) ha confermato che Francesco Schiavone, boss del clan camorrista dei Casalesi e noto come “Sandokan”, comincerà a collaborare con la giustizia. Schiavone è in carcere dal 1998, dove è sottoposto al 41bis, un regime carcerario duro introdotto nel 1992 per contrastare la criminalità organizzata.

Ma chi sono i collaboratori di giustizia? I collaboratori di giustizia sono persone condannate per reati di mafia, che decidono di confessare alle autorità quello che sanno sui meccanismi dell’organizzazione criminale di cui hanno fatto parte per ottenere sconti di pena o benefici. I collaboratori di giustizia sono diversi dai testimoni di giustizia, che non hanno preso parte alle attività criminali che denunciano ma ne sono stati testimoni, o a volte ne sono state vittime. Le norme che regolano la collaborazione con la giustizia furono volute dal magistrato Giovanni Falcone nel 1991, quando era direttore generale degli affari penali del ministero della Giustizia. Ai tempi Falcone e altri magistrati intuirono che la collaborazione e le informazioni di persone interne ai gruppi criminali sarebbero state uno strumento fondamentale per le indagini. La legge del 1991 prevede per le persone disposte a collaborare “speciali misure di protezione idonee ad assicurarne l’incolumità provvedendo, ove necessario, anche alla loro assistenza”. Uno dei principali motivi per cui i condannati per reati di mafia si rifiutavano di dare informazioni alle autorità era il rigido sistema di omertà che caratterizza la criminalità organizzata, che mette in  pericolo chi viene  denominato traditore.

Ma non basta dare informazioni alla magistratura per diventare collaboratori di giustizia: è infatti necessario che le informazioni fornite, oltre a essere attendibili, abbiano “carattere di novità o di completezza” oppure siano “di notevole importanza per lo sviluppo delle indagini”. Come premio per chi decide di collaborare con la giustizia è previsto uno sconto della pena. Per i collaboratori sono poi previste anche misure di reinserimento sociale e lavorativo. La legge sui collaboratori di giustizia fu aggiornata nel 2001 con alcune modifiche, tra cui un limite di tempo di sei mesi – a partire da quando si decide di collaborare – per dare tutte le informazioni; fu inoltre introdotta la distinzione tra collaboratore e testimone di giustizia.

Nel caso di Schiavone, due figli, Nicola e Walter, e la moglie, Giuseppina Nappa, avevano già iniziato a collaborare con la giustizia ed erano stati inseriti in un programma di protezione, mentre altri due figli, Carmine ed Emanuele, pur essendo in carcere, non hanno mai cominciato a farlo.

Cosa è invece il 41 bis? Il 41 bis è un regime di detenzione che prevede l’isolamento dei condannati in celle individuali. Al suo interno il detenuto è controllato 24 ore su 24 e non possono esserci i suoi oggetti personali. Nella cella non possono entrare libri, riviste e giornali, salvo delle particolari concessioni. In questo regime il detenuto non può avere contatti con l’esterno e all’interno del carcere, anche i contatti con le stesse guardie penitenziarie sono limitati.

La sua introduzione è causata da situazioni di emergenza per le quali è possibile limitare i diritti dei detenuti con il fine di garantire e ripristinare la sicurezza. Da tale assunto si deduce che il 41-bis non è una misura punitiva aggiuntiva, ma ha  ha carattere precauzionale, al fine di evitare che un detenuto pericoloso possa continuare ad esercitare anche dal carcere il proprio potere sull’esterno. Il nome del regime 41-bis deriva dall’articolo della legge sull’ordinamento penitenziario numero 354/1975, introdotto nel 1986 dalla legge Gozzini, che interessava, in un primo momento, esclusivamente i casi di emergenza interna o di rivolta nelle carceri italiane e che successivamente alla strage di Capaci del 1992, è stato ampliato ai detenuti facenti parte dell’organizzazione criminale mafiosa.

L’obiettivo di questo regime è di impedire il passaggio di ordini, informazioni o di ogni altro tipo di comunicazione tra i detenuti e le organizzazioni di appartenenza nel territorio. Il soggetto titolare del potere di applicazione della norma è il Ministro di grazia e giustizia, e non l’ordine giudiziario.

Il 41-bis, viene applicato in presenza di specifici reati indicati dall’articolo della legge penitenziaria in questione. Si tratta di crimini considerati più gravi a livello legale e sono quelli:
• aventi finalità di terrorismo;
• di associazione a delinquere di stampo mafioso;
• commessi per agevolare l’attività delle associazioni mafiose;
• di riduzione o mantenimento in schiavitù;
• di sfruttamento della prostituzione minorile;
• di tratta di persone;
• di acquisto o alienazioni di schiavi;
• di violenza sessuale di gruppo;
• di sequestro di persona a scopo di rapina o estorsione;
• di associazione a delinquere per contrabbando di tabacchi lavorati all’estero;
• di associazione a delinquere per traffico di sostanze psicotrope o stupefacenti.

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