Più volte la Corte di Cassazione si è occupata di spiegare se sono valide le dimissioni imposte al lavoratore sotto minaccia. Cerchiamo di capirne di più. Le dimissioni rassegnate da un lavoratore sotto minaccia di licenziamento possono essere valide. Ciò accade quando il dipendente ha effettivamente commesso azioni dannose per l’azienda. Esempio: un direttore di filiale bancaria che, con i propri comportamenti, ha determinato un pregiudizio al patrimonio del datore di lavoro. In questi casi, la minaccia di licenziamento è considerata giustificata e non costituisce una violenza morale in grado di annullare le dimissioni. La Cassazione, con sentenza n. 7523/15 del 23 marzo, ha statuito in questo modo.
Difatti, in ipotesi del genere non può parlarsi di una minaccia: il datore pone il dipendente in condizione di scegliere tra un sicuro e legittimo licenziamento, e l’atto di dimissioni per “salvare la reputazione”. È chiaro che chi opta per il licenziamento può chiedere l’assegno di disoccupazione (Naspi), anche se il licenziamento avviene per giusta causa. Non vi ha diritto invce chi si dimette volontariamente.
La violenza morale, che può causare la nullità delle dimissioni, si verifica in presenza di un comportamento intimidatorio e oggettivamente ingiusto da parte del datore di lavoro. Il che presuppone che il dipendente non abbia commesso alcun grave illecito disciplinare. Tuttavia, nel caso esaminato dalla Suprema Corte, il datore di lavoro aveva legittimi motivi per minacciare il licenziamento, rendendo le dimissioni valide. Nel caso specifico della sentenza della Cassazione, la dipendente era responsabile di danni importanti all’azienda, che ha poi dovuto pagare somme cospicue ai clienti. La sua condotta fraudolenta ha impedito al datore di lavoro di esercitare un controllo efficace, giustificando così le minacce di licenziamento e azione risarcitoria. E’ opportuno sottolineare però che con il Jobs Act e la riforma del lavoro del 2015 le dimissioni devono essere comunicate in forma telematica all’Inps, altrimenti non sono valide.
In ogni caso, anche quando la comunicazione è avvenuta correttamente, il dipendente ha 7 giorni di tempo per revocare le dimissioni, utilizzando la medesima procedura che aveva utilizzato invece per formalizzarle. Trascorso questo termine, il dimissionario non può più procedere alla revoca. Secondo la Cassazione (sentenza n. 30126/2018), il dipendente può revocare le dimissioni anche dopo i 7 giorni se fornisce la prova di averle rassegnate in stato di stress e di turbamento psicologico. Deve risultare, però, che il dipendente ha comunicato il recesso dal contratto di lavoro a causa di un forte stato emotivo.