Il prigioniero di coscienza: la storia di Patrick Zaki

di Luisa Sbarra

FreePatrickZaki” è stato, dal 2020, lo slogan utilizzato a livello comunitario per chiedere la liberazione del giovane ricercatore e attivista Patrick Zaki. Per la polizia egiziana i capi di accusa contro Zaki erano: minaccia alla sicurezza nazionale, incitamento alle proteste illegali, sovversione, diffusione di false notizie e propaganda per il terrorismo. Tutto ciò per la polizia si evinceva da alcuni post pubblicati su Facebook e per questo il giovane ha rischiato fino ai 25 anni di carcere. Per Amnesty International, la nota organizzazione che lotta contro le ingiustizie e in favore dei diritti umani, in tutto il mondo, e maggiore sostenitrice per il rilascio di Patrick Zaki, il giovane è sempre stato un prigioniero di coscienza, detenuto esclusivamente per il suo lavoro in favore dei diritti umani, con accuse false e per le opinioni politiche espresse sui social media e doveva essere rilasciato subito

Con prigioniero di coscienza (termine coniato dalla stessa organizzazione internazionale) si intende una persona privata della sua libertà solo a causa delle sue opinioni o di discriminazione per motivi di etnia, sesso, genere o altra identità e che non abbia mai usato violenza e non ne abbia invocato l’uso. In seguito, il 1 ottobre 2020, ventisei europarlamentari italiani scrissero una lettera al capo dell’ambasciata italiana al Cairo, Giampaolo Cantini, in cui definivano Patrick Zaki innocente e si dichiaravano dello stesso pensiero di Amnesty, ritendendo che l’accusa di terrorismo fosse solo strumentale.

Il 18 dicembre dello stesso anno, il Parlamento Europeo approvò una risoluzione, in cui si leggeva che deplorava con la massima fermezza la continua e crescente repressione, per mano delle autorità statali e delle forze di sicurezza egiziane, ai danni dei diritti fondamentali e di difensori dei diritti umani e chiedeva la liberazione immediata e incondizionata di Patrick George Zaki e il ritiro di tutte le accuse a suo carico, definendo arbitrario il suo arresto e considerando la sua detenzione come una minaccia per i valori fondamentali dell’Unione Europea.

Zaki fu arrestato il 7 febbraio (anche se la polizia tuttora continua a negare e dichiara di averlo fatto nelle 24 ore successive). Si ebbero sue notizie solo 8 febbraio, dopo diverse ore di sparizione forzata, quando fu portato di fronte alla procura della città di Mansura per la convalida dell’arresto. Secondo il suo avvocato, incontrato un mese dopo il suo arresto, è stato bendato e torturato per 17 ore consecutive con colpi allo stomaco, alla schiena e con scariche elettriche dalle forze di sicurezza egiziane e sottoposto a domande riguardo la sua permanenza in Italia e il suo impegno politico, venendo anche più volte minacciato di stupro. Inoltre, solo il 25 agosto 2020, gli fu concesso di vedere, per la prima volta da marzo, sua madre, per un breve colloquio, dove apparve visibilmente dimagrito e provato.

Durante la pandemia di Covid, la preoccupazione per il suo stato di salute è stata forte a causa dell’emergenza sanitaria in Egitto. Il 7 dicembre 2021, al termine della terza udienza, il tribunale ha ordinato finalmente la scarcerazione di Zaki, che ha potuto rimanere in libertà per la restante durata del processo. Il 18 luglio 2023 a Mansura, il tribunale egiziano lo ha condannato a tre anni di reclusione con effetto immediato. Il giorno successivo, il presidente egiziano Al-Sisi gli ha concesso la grazia presidenziale.

Zaki, tornato in Italia, a Bologna, ci resterà per circa due settimane, per incontrare colleghi, professori e amici che non hanno mai smesso di aiutarlo e per consegnare la tesi del master che ha dovuto discutere in video. Poi tornerà in Egitto, senza alcun timore e paura, dove ha annunciato che, nel mese di settembre, si sposerà con la fidanzata RenyIskander. Una storia, finalmente, a lieto fine.

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